Tassi di ricollocamento in Veneto un anno fa: opinioni da rileggere

Alcuni dati sulle potenzialità delle comunità locali di fare fronte alla disoccupazione, e sulla difficoltà delle istituzioni di conoscere “il loro stesso mercato del lavoro” possono essere ancora interessanti, visto che sono state scritte nel momento peggiore dell”‘anno orribile” 2012. Ne abbiamo scritto, in modo più profano, anche noi qui. Pietro Ichino, Senatore PD (Partito Democratico), scrive sul Corriere della Sera, edizione del Veneto, ad aprile 2012. Per una disanima di diverse posizioni sul fronteggiamento della disoccupazione, potete rileggere invece questo post.

 

Se otto du dicei ritrovano il posto. In Veneto l’81% di chi perde il posto lo ritrova in un anno. Il mistero dei numeri

Pietro Ichino

Caro Direttore,
Monti e Fornero hanno dalla loro un argomento fortissimo: il progetto di riforma che il governo sta per presentare in Parlamento allinea il nostro diritto del lavoro a quello degli altri Paesi europei. Ma a questo argomento gli italiani che difendono l’articolo 18 ne contrappongono uno altrettanto forte: l’Italia non è come gli altri Paesi europei, perché da noi il lavoro manca; chi lo perde ha una enorme difficoltà a ritrovarlo.
Ora, la difficoltà a ritrovarlo – e ancor più a trovarlo per la prima volta -, in Italia, è indiscutibile; e ne vedremo i motivi specifici nella prossima puntata. Ma di lavoro da noi ce n’è molto più di quanto si pensi, anche in questo periodo di vacche magre (e potrebbe essercene ancor di più se fossimo capaci di abbattere il diaframma che separa domanda e offerta di manodopera: sarà questo il tema della terza puntata).
La prima tabella mostra il numero dei contratti di lavoro dipendente che sono stati stipulati nel corso del 2010 in ciascuna delle nove Regioni che sono in grado di fornire questo dato. Un numero sorprendentemente alto: nell’occhio del ciclone della crisi più grave dell’ultimo secolo, queste Regioni hanno fatto registrare in un anno circa quattro milioni di contratti di lavoro.

Vero è che, se si disaggregano questi dati, ne risulta solo un milione circa di contratti a tempo indeterminato. Ma anche solo un milione è un bel numero, se si considera che le persone rimaste nello stesso periodo senza il posto per crisi occupazionali aziendali si misurano con uno o due zeri di meno. Per esempio: in Veneto, tra l’ottobre 2010 e il settembre 2011, gli assunti a tempo indeterminato sono stati 145.600. Nel corso del 2011, coloro che hanno perso il posto per licenziamenti collettivi sono stati 11.807; e per licenziamenti individuali (quasi tutti in imprese sotto i 16 dipendenti) 22.671. Dunque: nella stessa regione, pur in un periodo di grave crisi, per ogni licenziato sono stati stipulati quattro contratti a tempo indeterminato.
Ancora nel Veneto – la regione che fornisce i dati più aggiornati, completi e analitici – risulta che negli ultimi anni quattro persone su dieci che hanno perso il posto lo hanno ritrovato in tre mesi, otto su dieci lo hanno ritrovato entro un anno. È all’incirca la stessa cosa che emerge, da una ricerca della Banca d’Italia su dati Inps per il periodo 1998-2005, in riferimento all’intero territorio nazionale: anche da quei dati, sorprendentemente, risulta che otto italiani su dieci ritrovavano il lavoro entro un anno da quando lo avevano perso. La differenza, fra prima e dopo lo scoppio della grande crisi, è che appare molto peggiorato il rapporto tra assunzioni a tempo indeterminato e a termine, o comunque con contratti precari.
Se le cose stanno così, come si giustifica il fatto che diamo normalmente per scontata la prospettiva di anni e anni di cassa integrazione per chi perde il posto? Per esempio: in quello stesso Veneto nel quale sono stati stipulati 145.000 contratti a tempo indeterminato nel corso dell’ultimo anno, ci sono due aziende – la Iar Siltel di Bassano del Grappa e la Finmek di Padova – dove poche centinaia di lavoratori sono in cassa integrazione da sette anni. Non è forse questo il segno di un modo profondamente sbagliato di affrontare il problema della perdita del posto di lavoro nel nostro Paese?

Sento già l’obiezione: questi sono dati riguardanti il Centro-Nord, ma nel Mezzogiorno le cose vanno in modo molto diverso. È vero; ma al Sud le cose vanno in modo meno diverso di quanto si pensi. La seconda tabella ci fornisce il dato complessivo dei rapporti di lavoro attivati al Nord, al Centro e al Sud.

Anche al Sud, dunque, le occasioni di lavoro ci sono. Certo, ne occorrono di più, perché anche così il tasso complessivo di occupazione in Italia è troppo basso; perché se aumenta la domanda aumentano le retribuzioni e la forza contrattuale dei lavoratori; ma già oggi i nuovi contratti si contano a milioni ogni anno. La ricerca del posto dovrebbe apparirci come un succedersi di gare di dieci concorrenti per nove posti; perché invece abbiamo questa percezione del nostro mercato del lavoro – e soprattutto di quello meridionale – come di un grande «buco nero», di una trappola infernale dalla quale tenersi il più possibile alla larga? Come si spiega che, con tutti questi contratti di lavoro stipulati ogni anno, sia effettivamente così difficile per i disoccupati trovare un posto nel tessuto produttivo italiano?
Cercheremo di rispondere a questa domanda nella prossima puntata, mettendo a fuoco il muro – più alto e più spesso rispetto ai Paesi del Centro e Nord Europa – che da noi separa la domanda dall’offerta di lavoro. Qui c’è ancora spazio per un’osservazione: dalla riforma costituzionale del 2001, le nostre Regioni hanno una competenza legislativa e amministrativa piena in materia di servizi al mercato del lavoro e tutte ovviamente spendono risorse rilevanti per questo capitolo di bilancio; ma, dal Lazio in giù, nessuna delle nostre Regioni è in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio. Per non dire di tutti gli altri dati disaggregati che sarebbero indispensabili per governare efficacemente l’incontro fra domanda e offerta. Se esse stesse non conoscono nulla del proprio mercato del lavoro, come possono farlo conoscere ai lavoratori che ne avrebbero bisogno?

Pietro Ichino
senatore Pd

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  1. Anche al Sud, dunque, le occasioni di lavoro ci sono. Certo, ne occorrono di più, perché anche così il tasso complessivo di occupazione in Italia è troppo basso, e poi perché se aumenta la domanda aumentano le retribuzioni e la forza contrattuale dei lavoratori; ma già oggi i nuovi contratti si contano a milioni ogni anno. La ricerca del posto dovrebbe apparirci all’incirca come un succedersi di gare di dieci concorrenti per nove posti. Perché invece percepiamo il nostro mercato del lavoro – e soprattutto di quello meridionale ‑ come un grande “buco nero”, una trappola infernale dalla quale tenersi il più possibile alla larga? Come si spiega che, con tutti questi contratti di lavoro stipulati ogni anno, sia effettivamente così difficile per i disoccupati trovare un posto nel tessuto produttivo italiano? Cercheremo di rispondere a questa domanda nella prossima puntata, mettendo a fuoco il muro – più alto e più spesso rispetto ai Paesi del centro e nord-Europa – che da noi separa la domanda dall’offerta di lavoro. Qui c’è ancora spazio per un’osservazione: dalla riforma costituzionale del 2001, le nostre Regioni hanno una competenza legislativa e amministrativa piena in materia di servizi al mercato del lavoro e tutte ovviamente spendono risorse rilevanti per questo capitolo di bilancio; ma, dal Lazio in giù, nessuna delle nostre Regioni è in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio. Per non dire di tutti gli altri dati disaggregati che sarebbero indispensabili per governare efficacemente l’incontro fra domanda e offerta. Se esse stesse non conoscono nulla del proprio mercato del lavoro, come possono farlo conoscere ai lavoratori che ne avrebbero bisogno?