BRUCE SPRINGSTEEN “Jack Of All Trades”, dall’album “Wreckin Ball”, pubblicato il 5 Marzo del 2012.
Bruce Springsteen, “The Boss”, ragazzotto ipervitaminico del New Jersey, figlio naturale e legittimo dell’america più stradaiola e verace, ha smitizzato la poesia di Woody Guthrie e Bob Dylan, l’ha mischiata col realismo dei padri del blues, vestita di fervore rock and roll e messa in bocca ai sognatori, i falliti, i meccanici sporchi di olio anche al pranzo di natale, gli autostoppisti solitari, i criminali da strapazzo, i poliziotti, le minoranze, a tutti gli ultimi o ai dimenticati, in quella terra che (parole sue) rimane di “hope and dreams” di sogni e speranze.
Quando il paese rimase impietrito di fronte all’attacco dell’undici settembre, Bruce si trova in un periodo di limbo, i novanta erano stati anni di riflessione su se stesso, di elaborazione di un successo con pochi eguali nella storia, che rischiava di fagocitarne ispirazione, affetti e dimensione umana.
Un giorno il boss si vede affiancare da una macchina e chi la guida lo guarda con fare quasi supplicante e gli dice “Bruce, abbiamo bisogno di te”.
La voce dell’america, chiamata da un’america ora senza più voce.
Così si rialzò e produsse l’album della rinascita “the rising” ed era il 2002 e questa è storia.
Tutto questo per dire cosa?
Che il boss è la voce popolare più popolare della storia del rock, ed era inevitabile che vivendo la più grande crisi economica post-1929, fosse la sua una delle opinioni più attese sull’argomento.
Dopo i “vagabondi nati per fuggire” visto che c’era solo “oscurità ai margini della città”, dopo la denuncia a dentri stretti di chi è “nato negli USA” ma per una guerra persa non ha più diritti (e pensare che da noi si credeva fosse un pezzo patriottico, poveri noi) ora tocca alla materia, niente sentimenti.
La crisi è come una tempesta perfetta.
“Soffia un uragano, porta con sé una forte pioggia. Quando il cielo blu va in frantumi, sembra che il mondo cambi per sempre.”
C’è quel vecchio adagio per cui i cinesi usano “crisi” anche per intendere “opportunità”, ecco, Springteen lo sposa in pieno, anche traendone morali universali:
“Inizieremo a prenderci cura l’uno dell’altro, come Gesù disse che avremmo potuto fare”
Perché rimane il fatto nudo e crudo che è da se stessi e dalla comunità umana in sui si vive, che ci si deve aspettare qualcosa, non dal sistema.
E la figura del “tuttofare” esce come soluzione amara ma orgogliosa.
“Taglierò il tuo prato, pulirò la tua grondaia dalle foglie. Riparerò il tuo tetto per non far entrare la pioggia. Prenderò il lavoro che Dio mi offrirà. Sono un uomo tuttofare, tesoro, staremo bene. Martellerò i chiodi, e poggerò la pietra. Raccoglierò i tuoi raccolti quando saranno cresciuti e maturi. Smonterò quella macchina e la aggiusterò fino a che non funzionerà bene“
Un aiuto per se, per gli altri, una funzione pratica per la collettività, una spontanea rete di competenze, a parlar fino.
Il fatto è che niente serve di più in certi casi del saper fare qualcosa, un lavoro qualsiasi, anche quello impensato fino al giorno prima in cui si stava col sedere sulla sedia e i gomiti sulla scrivania.
L’uomo tuttofare forse sopravvive a quel che gli accade intorno, e lo fa con malcelato disprezzo e disincanto:
“Il banchiere diventa sempre più grasso, il lavoratore sempre più magro. Tutto è già successo e tutto riaccadrà. Riaccadrà, scommetteranno la tua vita. Sono un uomo tuttofare e, cara, staremo bene. Ora, a volte, il domani arriva impregnato di ricchezze e sangue. Ecco abbiamo sopportato la sete, ora sopporteremo il diluvio. Sta arrivando un nuovo mondo, riesco a vedere la luce. Sono un uomo tuttofare, staremo bene“
Amen.
a cura di Marco Ghiotto
http://www.youtube.com/watch?v=OtGb5MPCMlg